DIPARTIMENTI

FEATURED

La tecnologia fra medico e paziente:
c’è ancora spazio per il Medico Filosofo?



Abstract


Il progresso raggiunto attualmente dalla medicina è strettamente legato al progresso tecnologico, grazie al quale la vita media della popolazione del mondo occidentale è praticamente raddoppiata negli ultimi cinquantanni, essendo oggi possibile curare e guarire un numero crescente di malattie. La tecnologia ha perció creato problemi nuovi tra i quali spiccano la prevalenza delle malattie croniche e la sostenibilità delle cure ma ha soprattutto modificato il rapporto medico paziente. Al medico si richiedono crescenti competenze scientifiche tecniche, gestionali e relazionali.
La riflessione filosofica sul significato della malattia e sui concetti che ad essa si correlano potrebbe essere un approccio idoneo per affrontare la complessità che caratterizza la Medicina e a ricostituire un rapporto che paradossalmente la tecnologia ha reso precario e insidioso.


Parole chiave



Introduzione


La presente trattazione riguarda la trasformazione che il rapporto medico paziente ha subito nel tempo in relazione allo sviluppo delle conoscenze scientifiche e soprattutto degli apporti della tecnologia. Poiché grazie ad esse la medicina è ora in grado di curare con successo e guarire un numero crescente di malattie, si è ingenerata la convinzione che esista un rimedio per ogni patologia e che la morte possa essere evitata o procrastinata, essendo possibile oggigiorno morire non per malattia ma solo per morte naturale.
La realtà è purtroppo ben diversa: il progresso delle conoscenze e delle tecnologie non solo non è in grado di prevenire e di curare tutte le malattie ma è la causa dell’aumento della prevalenza di soggetti affetti da malattie croniche, la qualità di vita dei quali è spesso inversamente proporzionale alla sua durata; al tempo stesso la tecnologia ha creato situazioni che pongono problemi di ordine bioetico di difficile risoluzione. In questo contesto si rende indispensabile il ripensamento in chiave filosofica su concetti basilari in ambito sanitario: di salute e di malattia, di cura e di terapia, di medicina come sapere e come prassi unitari, di medico e del suo agire. Si è venuto così a ricostituire in tempi recenti quel legame che la medicina ha sempre avuto con la filosofia e che sembrava essersi allentato proprio a causa dello sviluppo delle conoscenze scientifiche e delle sue applicazioni.

La riflessione può essere modulata a diversi livelli: a livello epistemologico, bioetico, deontologico con un coinvolgimento diverso ma al tempo stesso complementare di filosofi e di operatori sanitari. Per questi ultimi, avendo essi diretta esperienza della realtà sanitaria, la riflessione filosofica riveste caratteri di necessità e di urgenza in ragione della rapidità con cui si verificano i cambiamenti e per la difficoltà di gestire l’espansione delle nozioni e delle competenze necessarie (anche manageriali) in un contesto complicato e complesso. Di filosofia la medicina ha bisogno: c’è il bisogno di una filosofia che sia per la medicina e non solo di una filosofia della medicina o di una filosofia nella medicina (vedi la distinzione operata da E. Pellegrino) a supporto dell’operatore sanitario che non può non porsi la domanda del senso del perché e del come agire proprio a causa della molteplicità degli aspetti (scientifici, tecnici, organizzativi, economici ed etici) di cui deve tener conto in un contesto in perenne evoluzione.
La filosofia serve proprio per questo.


Le epoche in Medicina


Il rapporto filosofia-medicina può essere meglio compreso se consideriamo le fasi attraverso le quali si snoda la storia della medicina:

  • A) Fase prescientifica
    fase magico-religiosa
    fase prescientifica (antichità classica e medioevo)
    fase rinascimentale:
  • B) Fase scientifica: da Vesalio al XXI sec., suddivisibile in:
    fase pre-tecnologica (basata già sul metodo scientifico, ma poco tecnologica)
    fase tecnologica (XX-XXI sec.): integrazione con la tecnologia
    fase informatica

Nella fase prescientifica il rapporto filosofia-medicina è stato forte in quanto alleate nella cura dell’uomo inteso come unità di corpo e di psiche.
Si può anzi affermare che medicina e filosofia abbiano la stessa matrice in quanto se, come afferma Aristotele, la filosofia nasce dalla meraviglia e dallo stupore che, in greco, viene espresso con il verbo thaumazein, lo stesso verbo esprime anche provare sgomento: quindi sia la filosofia che la medicina condividendo la stessa origine, hanno anche la stessa finalità che consiste nella cura, dell’anima e del corpo al tempo stesso.
Dal V sec. a. C. fino all’età rinascimentale, la medicina ha avuto un fondamento filosofico dottrinale. Il passaggio della medicina da arte empirica basata per lo più su congetture fantasiose a pratica basata su conoscenze scientifiche è stato lungo e piuttosto tortuoso. Per il padre della medicina, Ippocrate (460 -370 a.C.), la salute fisica dipende dall’equilibrio fra i vari umori che costituiscono l’organismo (bile gialla, bile nera, flemma, sangue), così come la salute mentale dipende dall’equilibrio fra i due costituenti dell’anima (acqua e fuoco), e la perfetta salute è garantita dall’equilibrio tra sfera fisica e sfera mentale che costituiscono l’essenza umana. Per il corpo malato la cura si ottiene pertanto ripristinando gli equilibri, e per questo la cura dell’anima mediante la filosofia è essenziale per la cura del corpo. Il merito principale di Ippocrate è stato quello di aver fondato la deontologia medica, i cui principi sono bene riassunti nel famoso giuramento, e per aver stabilito le fasi del procedimento clinico (anamnesi, esame obiettivo, formulazione di ipotesi diagnostica, terapia, prognosi).
Il rapporto medico-paziente nella medicina ippocratica, sebbene ispirato al principio della massima beneficienza per il malato, è tuttavia caratterizzato da una marcata asimmetria e perció attualmente contestato: il medico, per Ippocrate, è pur sempre il decisore e il malato è paziente nel vero senso della parola in quanto subisce.

Analogamente Galeno (siamo nel II sec. dopo Cristo) «è sia medico che filosofo, e si preoccupa del successo delle sue cure tanto quanto è affascinato dal piacere di speculare e di elaborare sistemi esplicativi» (Mirko Grmek). Riprendendo la teoria ippocratica degli umori, afferma tuttavia il primato della medicina sulla filosofia.
Nei secoli successivi resta forte l’influenza della tradizione classica ippocratica, pur costituendosi nel Medioevo un corpus dottrinale cospicuo degno di insegnamento universitario ed un approccio innovativo del prendersi cura del malato testimoniato dalla nascita dei primi ospedali (gestiti per lo più da ordini religiosi).
Nei secoli del Rinascimento, e soprattutto dal XVI secolo in poi, il sapere medico trova il suo fondamento negli studi di anatomia e fisiologia: ne sono testimonianza Vesalio, autore del De Humani Corporis Fabrica (1543), opera corredata da oltre trecento tavole (in cui sono individuati numerosi errori commessi da Galeno e dai suoi seguaci in campo anatomico), ed Harvey (1578-1658), scopritore della circolazione sanguigna (Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus). Si viene così progressivamente delineando il concetto di “uomo-macchina“ enfatizzato da La Mettrie: macchina che si può “guastare e rompere”, come dimostrato sia dai primi studi di anatomia patologica macroscopica (Morgagni, 1682-1771, De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, 1761) che microscopica (Virchow).

Ma il vero salto di qualità nella storia della medicina è costituita da Claude Bernard, ritenuto il fondatore della moderna fisiologia basata sul metodo scientifico-sperimentale come testimoniato dal titolo della sua opera principale: Introduzione alla medicina sperimentale (1859); a lui si attribuisce il concetto di ambiente interno e di omeostasi (costanza del mezzo interno) e con lui inizia la patologia clinica e la medicina di laboratorio. La medicina entra perció ufficialmente nella fase scientifica e il medico si può basare sulle conoscenze fisiopatologiche (e non più su speculazioni filosofiche) per l’interpretazione dei sintomi e dei segni acquisiti attraverso l’anamnesi e l’esame obiettivo (che restano pur sempre fondamentali nella pratica medica) a sostegno della propria decisionalità e autorevolezza.


L’ingresso della tecnologia


Ma dalla fine del XIX secolo la medicina subisce una profonda trasformazione grazie al progresso scientifico e tecnologico in tutti i settori, spaziando dalla prevenzione alla terapia anche di malattie rare, per approdare al cosiddetto potenziamento delle prestazioni fisiche e intellettuali dell’uomo normale: la vocazione della medicina non è solo più quella di curare l’organismo ammalato, a conferma che stiamo entrando nell’epoca del post-umanesimo e del transumanesimo: i problemi che ne derivano stimolano ovviamente la riflessione e suscitano accese discussioni in ambito filosofico e bioetico. Nasce così il mito di una medicina tecnologica in grado di vincere rapidamente (fast medicine) la malattia e financo la morte in un contesto culturale in cui il concetto di malattia fa riferimento ad una mera alterazione funzionale o anatomica (disease nella terminologia anglosassone) in qualche modo sostituibile o correggibile alla stregua di qualsiasi sistema meccanico (l’uomo-macchina sempre più macchina?), ignorando l’aspetto soggettivo/esperienziale/esistenziale della malattia (illness) e delle conseguenze a livello sociale (sickness).

Ne è derivata la tendenza a medicalizzare la vita nella convinzione che la medicina possa risolvere i problemi più o meno gravi della vita modificando le reazioni dell’uomo che si deve confrontare con la quotidianità e modulando le varie funzioni fisiche ed emotive: modulazione dei ritmi sonno-veglia-sonno, gestione della funzione mnesica (incrementare le potenzialità mnesiche o, al contrario, far dimenticare i ricordi spiacevoli) e delle risposte emotive/affettive.


Il cambiamento del rapporto tra medico e persona assistita


Contestualmente è cambiato il rapporto medico paziente: se in una prima fase la tecnologia è stata uno strumento a disposizione nelle mani del medico per perfezionare la sua opera e per accrescerne il prestigio, successivamente è diventata un competitor: la tecnologia ha preso il posto del medico; al medico non ci si rivolge più per ottenere una visita medica ma piuttosto per estorcere una richiesta per un esame tecnologico, dal cui esito scaturisce la possibilità di una diagnosi e dunque di una cura.
Nel contempo si è progressivamente affermata la valorizzazione delle scelte individuali anche nella gestione della propria salute come viene sancito a livello di Costituzione della Repubblica Italiana (v.di articolo 2, 3 e 32) e degli articoli 1, 2, 3 della Costituzione Europea. Se sino a fine '800 il paziente poteva essere definito passivo, ma fiducioso, fatalista e subordinato, attualmente il paziente è diventato autonomo, diffidente, autogestore, ma al tempo stesso esigente se non intransigente e rivendicativo nei confronti del medico curante, ormai relegato al mero compito di prescrivere esami senza neanche la possibilità di valutare obiettivamente il proprio paziente/esigente.

Ma quali sono le rivendicazioni del paziente esigente?

Innanzitutto diritto ad una informazione chiara completa sulle proprie condizioni nonché la possibilità di poter condividere l’iter diagnostico terapeutico avvalendosi eventualmente di un secondo parere a garanzia di usufruire di un’assistenza adeguata ed avanzata; in secondo luogo il rispetto della propria privacy e della propria autonomia riservandosi il diritto di scegliere se e come farsi curare in un certo modo, pur non potendo imporre al proprio curante un comportamento contrario al proprio statuto epidemiologico e agli orientamenti della dottrina. In terzo luogo, diritto a cure palliative qualora le terapie causali risultino inefficaci. Non stupisce che in questo clima in cui il paziente è un contraente a ogni livello, il medico badi a tutelare il suo operato esercitando la cosidetta medicina difensiva «identificabile in una serie di decisioni attive od omissive, consapevoli ma non di rado inconsapevoli o non specificamente meditate, che non obbediscono al criterio essenziale del malato nel rispetto di un equilibrato rapporto costo/beneficio, bensì all’intento di evitare accuse per non avere effettuato tutte le indagini o tutte le cure conosciute o al contrario per avere effettuato trattamenti gravati da alto rischio di insuccesso o di complicanze» (A. Fiori, La medicina legale difensiva, Riv. Ital. Med. Leg. 18, 899, 1996).

Secondo il prof. Cavicchi, nonostante i progressi talora strabilianti, la medicina scientifica non è in grado di affrontare adeguatamente i cambiamenti culturali che hanno trasformato il paziente in esigente, essendo l’operatore sanitario maggiormente interessato alla malattia piuttosto che alla persona assistita. Analizziamo perció il problema dei dettagli alla ricerca di una soluzione adeguata.


Malattia e malato


Cosa è la malattia?
Secondo la biologia, la malattia è la condizione di sofferenza di un organismo in toto o delle sue parti prodotto da una causa che lo danneggia e il complesso dei fenomeni reattivi (processo dinamico, non uno stato) che ne derivano. Sofferenza che può essere intesa in “senso ontologico”, ossia come alterazioni morfologiche oppure “funzionali” che giustificano la comparsa di sintomi e di segni che nel loro insieme permettono la definizione di entità nosologiche di cui è possibile riconoscere un’eziologia e una patogenesi che permettono al medico di interpretare la sintomatologia del singolo paziente, ossia di fare diagnosi.
È evidente che la caratterizzazione delle entità nosologiche e la loro classificazione (nosografia) subiscono una continua elaborazione per effetto dell’avanzare delle conoscenze. L’espressione clinica della malattia può tuttavia variare da individuo a individuo essendo dipendente da fattori genetici individuali ed ambientali, per cui le entità nosografiche che costituiscono la nosografia sono “astrazioni”, il cui riconoscimento preciso nella pratica clinica è raramente possibile. Così infatti si esprime Rugarli: «nella maggior parte dei casi le malattie siano costrutti intellettuali artificiali che raggruppano insieme di malati unificati da caratteristiche stabilite a priori per ragioni pratiche». Ma il sopracitato concetto di disease non è sufficiente per comprendere la natura della persona ammalata che è innanzitutto portatore di illness, ossia di una sofferenza che è di natura psichica, cui concorrono sentimenti diversi: paura, sconforto, vergogna, rabbia, rassegnazione, diniego, ma anche curiosità e coraggio.

Occorre perció approcciarsi all’ammalato con interesse non limitato al suo corpo inteso come Korper, cioè alla sua natura anatomo-fisiologica alterata, ma al suo Leib, cioè corpo vissuto, secondo la terminologia di Husserl, la cui patologia (disease) è espressione di una storia.

Il malato va dunque considerato come realtà emergente dalla interazione dinamica di vari elementi secondo una logica che non è quella della linearità ma della complessità.


Essere medico e fare il medico


Se la malattia va intesa in tal senso (non solo disease, ma anche illness), quali devono essere le competenze essenziali del medico?

Per Karl Jasper le caratteristiche del medico sono la competenza tecnico-scientifica e il suo ethos umanitario (techne, logos e philia, secondo Olivetti, attuale presidente dell’ENPAM), doti alle quali si deve aggiungere oggi la capacità gestionale/manageriale.

Se queste sono le competenze richieste all’operatore sanitario, su quali livelli devono essere applicate? Il primo ambito è quello metodologico: se un tempo era fondamentale un approccio basato su considerazioni di ordine fisiopatologico e sull’esperienza (autorità del medico), dagli anni ΄70 del secolo scorso la metodologia clinica si fonda sulla cosiddetta medicina basata sulle evidenze (Evidence Based Medicine, EBM), un movimento culturale il cui obiettivo principale consiste nella didattica della Medicina ma che in realtà rappresenta una nuova Filosofia nella pratica medica, basata sulle evidenze epidemiologiche di vario grado raccolte con metodiche diverse (che vanno dagli studi randomizzati in doppio cieco fino ai case report), che permettono di proporre raccomandazioni classificabili sulla base della loro “forza” che sono alla base delle cosiddette linee guida. Ad esse si fa riferimento non solo nella pratrica clinica, ma anche in sede giudiziaria come si evince dalla Legge 8 marzo 2017 n.24, (Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di respoinsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie) che recita «gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco». La base concettuale delle EBM.

È stata ed è tuttora oggetto di critiche in quanto il singolo soggetto ammalato costituisce una entità unica che vive in una realtà unica per cui è difficile applicare al singolo caso delle regole di ordine generale. E le stesse fonti su cui si basa, i dati dell’osservazione (i dati epidemiologici), non sono altro che ciò che ci si aspetta di vedere, sulla base di una scelta preliminare cui non sono sempre estranei interessi economici o di carriera. Cito alcuni giudizi che non possono non destare preoccupazione: «gran parte della letteratura medica è sbagliata» (R.Horton, The Lancet 2015); «non è più possibile credere alla gran parte della ricerca clinica che viene pubblicata, o fare affidamento sul giudizio dei medici di fiducia o sulle linee guida mediche autorevoli» (Marcia Angell, 2009). Nel corso degli anni, la concezione di EBM si è progressivamente evoluta riconoscendo che il contesto clinico-assistenziale è una determinante non trascurabile delle decisioni clinico-assistenziali e che l’esperienza professionale costituisce l’unico elemento che può integrare in maniera equilibrata le evidenze scientifiche con la singolarità del singolo caso clinico e il contesto ambientale/culturale in cui esso vive e le preferenze che esprime.

Da quanto esposto si concorda con Giorgio Cosmacini e Umberto Curi che

«la medicina non è una scienza, ma è una pratica basata basata su scienze e che opera in un mondo di valori. È in altri termini una tecnica dotata di un suo proprio sapere, conoscitivo e valutativo, che differisce dalle altre tecniche perché il suo oggetto è un soggetto: l’uomo».

Ed è proprio per questo che il secondo livello in cui si esplica l’operato medico è quello relazionale in cui non conta solo il sapere ma anche la curiosità, per l’uomo che si ha in cura, per la diagnosi che il malato “si fa”, per il significato che il malato attribuisce alla propria malattia, agli equilibri che essa rompe, al racconto che esso narra.
Elementi questi, che sono espressi nella Legge 22 dicembre 2017, n. 219 che, nell’articolo 1 comma 2, recita: «è promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico», e nell’articolo 2 comma 3: «ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati», e (comma 8) «il tempo di comunicazione tra medico e paziente è tempo di cura».


Conclusione


Scriveva Harrison nel 1953, nell’introduzione alla prima edizione del più diffuso trattato di Medicina Interna:

«nessuna occasione, responsabilità o dovere più importante può capitare ad un essere umano che quello di diventare medico: nella cura di chi soffre egli necessita di competenza tecnica, di conoscenze scientifiche e di comprensione umana... doti che dovrà utilizzare con coraggio, umiltà e saggezza per offrire al prossimo un servizio unico e perfezionare il proprio carattere: il medico non dovrebbe chiedere al proprio destino più di questo né accontentarsi di meno».

Mi piace credere che Heiddegger, secondo il quale l’uomo è affidato alla Cura, avrebbe definito autentico il medico descritto da Harrison e che Ippocrate lo avrebbe definito simile ad un Dio.




Bibliografia


Biscuso M., Filosofia e medicina, Mimesis, Milano-Udine, 2009
Conforti M., Corbellini G., Gazzaniga V., Dalla cura alla scienza: malattia salute e società nel mondo occidentale EncycloMedia, Milano, 2011
Cosmacini G., La scomparsa del dottore, storia e cronaca di un’estinzione. Storia e cronaca di un’estinzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013
Jaspers K., Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1991
Lingiardi V., Diagnosi e destino, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2018
Rugarli C., Medici a metà, quel che manca nella relazione di cura, Raffaello Cortina, Milano, 2017
Wulff R.H., Pedersen A.S., Rosenberg R., Filosofia della medicina, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995



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